Ferruccio Crovatto / 21 marzo – 3 aprile

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INAUGURAZIONE SABATO 21 MARZO ORE 18.00

I fili del tempo
La fotografia di Ferruccio Crovatto di Walter Chiereghin

Non meno di altri mezzi espressivi, la fotografia è documentativa, oltre che dello stato d’animo dell’autore ed eventualmente di quello del soggetto rappresentato, di un’epoca storica determinata. La datazione è in genere facilmente individuabile da parte di chi si accosti all’immagine, non solo nei casi in cui sono assunti dalla fotocamera elementi chiaramente databili, come taluni dettagli paesistici, la foggia degli abiti, oppure modelli automobilistici, targhe, manifesti pubblicitari o altri oggetti, ma anche quando l’immagine riflette una sensibilità e un gusto riferiti a un determinato momento storico.
Così nell’opera fotografica del triestino Ferruccio Crovatto (1921 – 1988) appare a prima vista chiaramente avvertibile una matrice ispirata al neorealismo degli anni in cui il fotografo, nelle sue prime esperienze dietro l’obiettivo, iniziava, trentenne, a produrre immagini alla cui ispirazione rimarrà in seguito sempre sostanzialmente fedele, anche mutando le condizioni tecniche che, ad esempio, lo condurranno dal bianconero al colore.
Una sorta di “imprinting” della sua cultura visiva, quasi fatale per una persona che inizia a scattare i suoi fotogrammi nei primi anni Cinquanta del secolo scorso, quando il cinema italiano stava esaurendo la sua seconda stagione neorealista, dopo i capolavori legati al periodo bellico e a quello immediatamente successivo al conflitto. Una stagione felice e già matura, tale da dettare tematiche e stilemi ancora per molti anni dopo la conclusione dal glorioso periodo, basti pensare ad alcune modalità espressive, protratte fino alla metà degli anni Settanta, nella cinematografia di Pier Paolo Pasolini.
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Ferruccio Crovatto parte da quell’universo visuale, dagli intenti narrativi di un mondo visto dalla parte degli umili, retaggio dei “vinti” del realismo del secolo precedente, ambientato nelle strade o nei luoghi meno celebrati, nelle officine dei vetrai di Murano e non nei trionfalismi del Canal Grande, nelle cave di Pietra di Aurisina e non già nei ritrovi e nei passeggi eleganti del centro cittadino. Una poetica che va a scovare i suoi soggetti nelle periferie, e non sarà un caso se Livio Crovatto, figlio biologico ma soprattutto figlio d’arte di Ferruccio, nell’affrontare il tema impegnativo, insidioso e logoro di descrivere Venezia alcuni decenni più tardi, lo farà seguendo le orme paterne sulle isole periferiche della laguna della Serenissima e non già nel nucleo monumentale del centro aristocratico della città adriatica.
Una modalità operativa che rifugge da ogni vuota retorica, per accostarsi al soggetto con sobrietà formale ma con grande empatia, come soprattutto dimostrano le immagini di bambini che, in un’epoca ancora non avvilita da minuziose disposizioni a tutela della privacy e quando ancora si poteva fotografare un bambino per strada senza essere sospettati di atroci nefandezze, costellano il lavoro della ritrattistica di Ferruccio Crovatto, che tuttavia non si sottrae a mettere in scena, catturandoli dall’altra estremità di una lunga parabola esistenziale, volti rugosi di anziani, coi quali, del pari, ingaggia un muto dialogo di grande partecipazione emotiva.
Va ascritta a merito di questa mostra postuma la volontà di tener viva la conoscenza su questo notevole artista triestino, sulla qualità del suo lavoro – tanto di quello sulla strada, in fase di ripresa, quanto di quello in camera oscura e di selezione delle immagini da conservare – sulla sua testimonianza di elevato valore sociale e soprattutto sulla sua poetica, fatta di discrezione e di garbo, ma anche d’intensa palpitante consonanza.

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