Claudio Bonanni
Da Parigi a Trieste
Inaugurazione sabato 10 maggio 2025 alle ore 17, con l’introduzione critica di Gianfranco Scialino.

La pittura di Claudio Bonanni è un viaggio appassionato a fianco e dentro la vita, una commossa esplorazione del mondo attraverso il colore e tramite la creativa disposizione degli elementi costitutivi i paesaggi. Il fine è dare espressione al seducente mistero che dovunque traspare dalla natura e sondare le verità insite negli scenari modellati dall’uomo. L’oggettività di ciò che è rappresentato è inscindibile dalla soggettività illuminata e demiurgica dell’artista nel cui stile, affinatosi in oltre quarant’anni di assiduo lavoro, realtà e coscienza, materia e idealità, figurazione e interpretazione convergono unite.
Nella natia Tivoli Bonanni respirò la classicità e si nutrì di entusiasmi mediterranei, acquisì la consapevolezza del dramma dell’esistere e la sublimò in attitudine contemplativa. Questo atteggiamento, plasticamente ripensato, è perdurante in una produzione costantemente arricchitasi di nuovi temi. Veicolata agli esordi in formule espressive nobilmente eclettiche ben presto si è fatta divinamente unica. Distillata da tante esperienze culturali, l’opera di Bonanni trae la sua originalità dalla coesistenza in essa di alcune cifre stilistiche così riassumibili: il modo inusitato di catturare la luce, rendendola sostanza costitutiva in ogni quadro, il cromatismo netto e rilevato che pure sfuma e si smorza nelle predilette atmosfere crepuscolari, la leggera matericità delle superfici percorse da tracce lontane di divisionismo e da criptati accenni di astrattismo, indotti dal ricorso prevalente alla spatola, essendo in buona parte emarginato il pennello.


A Parigi, tra il 1980 e il 1986, mediatore l’amato maestro Pio Santini (1908-1886), lo sguardo del giovane si aprì sul grande moto artistico là esploso dalla seconda metà dell’Ottocento e propagatosi ben addentro al Novecento, il quale all’insegna della libertà nell’arte fu ribellione radicale all’accademismo di scuola, produsse le più spregiudicate ricerche delle avanguardie, rivendicò i diritti della sovrana indipendenza della invenzione, condusse i pittori a uscire in strada, a fermarsi nelle piazze, ad entrare in caffè e bistrò, ad addentrarsi in aperta campagna, raccogliendo ogni stimolo utile per definire la totale liricità delle loro visioni. Dentro l’effervescenza dei tanti sperimentalismi, studiati nelle pinacoteche o seguiti nel loro attuarsi, per esempio l’espressionismo di Lauri Leppänen (1895-1977), allievo di Oskar Kokoschka (1886-1980), Bonanni selezionò come a lui congeniale la composita linea dell’impressionismo, riprendendolo nelle sue maggiori risultanze, aggiornandolo tuttavia, rendendolo attuale e fresco, obbedendo al proprio sentimento di osservatore ispirato dalla multiforme ricchezza della natura e dell’altrettanto multiforme azione dell’uomo costruttore e modificatore degli ambienti.
La ville lumière è rappresentata spesso nei ponti che scavalcano la Senna, propaggine nella loro maestosità degli aristocratici edifici messi a sfondo. Le acque grige del fiume si indorano nell’ora crepuscolare per i riflessi delle luci che si accendono (Pont Napoléon e La Tour Saint Jacques), muoiono nell’oscurità sotto il ponte Alessandro III per riapparire poco dopo lucenti di brividi. La metropoli in lontananza è assorbita dal cielo striato di porpora, una impalpabile foschia contorna l’esaurirsi del giorno, due impertinenti fari gialli sondano la corrente che, sorpresa, per un attimo frena la sua corsa (Crepuscolo al Pont Napoléon).
I vividi colori, il mare profondo di sfolgoranti azzurri, le ardite prospettive avvertono che siamo a Positano, dove la solarità istintiva di Bonanni si sviluppa in accordo con il paesaggio, collegandosi al vedutismo panico di Giacinto Gigante (1806-1876) e agli splendori della scuola partenopea di Posillipo.


Il nomadismo dell’anima non è casuale vagabondaggio, bensì ricerca di patrie elettive e di spazi in cui nasca spontaneo il doppio dialogo tra le cose e l’interiorità, tra il vedere e l’esprimere, fecondato talvolta anche da personali e segrete ragioni affettive. Matura precoce la fascinazione per la montagna con due microregioni prescelte su tutte: le conche alpestri di Sappada e di Tarvisio, adagiate nel verde e racchiuse da potenti chiostre di monti. Il processo osmotico della identificazione tra luoghi e intuizione artistica si ripete in forma poetica, conclusa e immodificabile, mettendosi in ideale confronto con alcuni interpreti storici di questo genere pittorico, in particolare Pio Solero (1881-1975) e Giovanni Pellis (1888-1962). La maggior parte delle opere è costituita da paesaggi innevati eseguiti con una varietà di soluzioni che bandiscono ogni rischio di monotonia, e ottengono il risultato per mezzo di invenzioni coloristiche raggianti, nonché per la accorta disposizione dei volumi e degli incroci prospettici. L’elemento plasmatore è ancora una volta la luce, naturale nel giorno, artificiale nella notte. Per essa la neve non è mai bianca: è macchiata di turchese, alterata di celestino, ingrigita quando si scioglie, quasi blu quando cala in fretta la sera invernale, oppure è specchio delle livide sovrastanti creste dal profilo severo che gli ultimi riflessi del tramonto rimarcano. Un paese si raccoglie in se stesso per sottrarsi alla notte strisciante attraverso le quinte oblique di una scenografia grandiosa, dove le masse montuose si trasformano in un bastione da tutti invalicabile, anche dai fantasmi (Ultime luci a Valbruna in inverno).
L’avventura di Bonanni sulla neve culmina nell’attenzione ai mille dettagli con cui la materia, la natura, le stalle rustiche, le baite, i ripari, diventano altro da sé, trasmettendo per analogie affioranti moniti e valori dei quali spesso siamo dimentichi. Il paesaggio è attraente e rasserena, ma nasconde la sofferenza che abita nell’incessante divenire. La solitudine, la piccolezza dell’uomo, il lavoro mai concluso per la sopravvivenza traspaiono dalle costruzioni isolate sorte in posizioni rischiose (Paesaggio invernale a Valbruna); il sublime e il titanico perturbatore convivono nelle vette aspre che puntano il cielo (Il Mangart da Fusine in inverno).
Le immagini sono rasserenanti; suscitano sensazioni di equilibrata armonia, propongono un piccolo universo ordinato secondo bellezza, magico e incorruttibile in grazia dell’arte, ma la fruizione estetica sarebbe incompleta se si fermasse a questo gradino, e non riuscisse a evolvere in emozionale meditazione sull’inesauribile enigma di tutti i fenomeni che toccano la nostra sensibilità.
Solo con elementare approssimazione terminologica la pittura di Bonanni potrebbe essere inquadrata come vedutismo o paesaggismo, essa infatti si sottrae a ogni compromesso con il calligrafismo, in quanto accede alle elevate regioni dell’incanto, dove verità e invenzione accorpate, intuizione ed espressione procedono in parallelo.
Sotto il mantello bianco in montagna occhieggia la speranza del ritorno alle parvenze distinte e alla confusione festosa della vita. Il presentimento dei ciclici risvegli contesta il falso bene della stasi imposta dal gelo. La prima avvisaglia viene dai colori pastello delle case da fiaba impazienti sotto i tetti sgocciolanti nel disgelo (Case a Valbruna in inverno). Con la stagione primaverile propizia agli incanti della rinascita la tavolozza interiore e quella esterna gradualmente si pareggiano, accendendosi di mai dimenticate tinte che finalmente riemergono, predominando i verdi in innumerevoli gradazioni, principalmente tenui (Baita a Cina Sappada).
Gli itinerari del sentimento raggiungono Venezia e Lubiana. Le due città sono immerse in una atmosfera quasi nordica, prevedibile per la mitteleuropea capitale slovena, inconsueta per la regina dell’Adriatico e porta dell’Oriente. Bonanni agisce in coerenza con la sua poetica dove percezione personale e oggettività del percepito concordano nell’immagine trasposta in emozione. Anche una realtà straniata, grigia, impoverita, al limite disordinata, si fa bellezza ammaliante, se messa a fuoco da un occhio divinatore e scopritore di significati inediti. Il Canal Grande dilegua nelle luminescenze incerte del crepuscolo, l’ora grande di Bonanni, il traghetto solitario avanza di traverso, i palazzi hanno dimenticato il fulgore della stagione d’oro, una sottile foschia smorza le distanze, l’acqua è quasi opaca e il lapislazzuli resta solo una reminiscenza dispersa qua e là (Canal Grande al tramonto).


In altra laguna un’acqua inerte sostiene come fossero zattere i casoni seminascosti da flessibili erbe e da alberi cespugliosi. I tetti di falasco e canne precipitano nei ripidi spioventi, una ipotesi di mare e il cielo distante si uguagliano nel celeste stinto, l’uno scialbato da frange di diafane nubi, l’altro in basso appena più vario perché mosso da un impercettibile susseguirsi di minuscole onde che spezzano i riflessi dei tanti isolotti. Il sapiente impasto dei colori per masse e strisce si risolve in afflato lirico, coinvolgendo e occupando l’anima (Casone e Casoni a Marano Lagunare).
Il mare è sfondo necessario a due barche: una in lento dondolio, l’altra in secco sulla spiaggia. Esse sono trasparente e antichissima metafora del vivere come viaggio incerto periglioso. Rapportabili alle inquietudini del nostro tempo moderno altre allusività si fanno strada: l’isolamento degli individui smarriti nel vuoto, l’incapacità perplessa di prendere il largo, la prevalenza della contemplazione disincantata o della estraneità a fronte della fermezza convinta richiesta nella lotta. O infine ci si può limitare a vedere solo la sfibrata attesa di un segnale che svuoti la zavorra delle nostalgie. Oggetti semplici sono gli scafi, ma difficili da raffigurare, così come di non facile risoluzione è l’intento di trasmettere la semanticità di uno spazio vuoto, assurto a cornice giusta per una segreta e travagliata meditazione (Barca solitaria e Barca con ombrellone).
Se Trieste è la destinazione dell’andare da posto a posto in un continuo esperire artistico, l’avvicinamento può comprendere anche un indugio tra le ruvidezze del Carso. Sulla costa rilevata e precipite, memoria dei balzi di Positano, il Castello di Duino si impone al cospetto dell’Adriatico. Collocato sulle accidentate rocce, appare contornato da una vegetazione di festa e di tormento composta di arbusti adusi al vento, al sole urente, allo scarso nutrimento offerto da poca terra.
Questa inquadratura si completa con un’altra dedicata a uno scorcio carsolino in coloritura autunnale: Vi convivono il sanguigno del sommacco, il giallastro di erbe stremate, l’ocraceo bruciaticcio delle foglie prossime a staccarsi dai rami di un drappello di alberelli cedui. Il risultato è una composizione che senza dimenticare il dato iconico di partenza se ne svincola in un caleidoscopio di tracce e intrichi. Realismo e astrazione, in stretta colleganza, producono un impressionismo che si trascende in un astrattismo informale e aleatorio fissato per grumi e strisciate cui si sovrappone un ricamo casuale di fili in coerente sintonia di colori(Autunno in Carso).
Trieste è presente con il suo golfo. Le strutture di moli, di approdi, di tipici stabilimenti balneari e di altri edifici utilizzati oggi come spazi sociali costituiscono argine e contrasto al movimento dell’acqua salsa. Con il loro profilo essenziale di volumi e piani disegnano la linea di demarcazione con il cielo (Barche a vela al tramonto e Barche a vela a Trieste). Le due dimensioni dell’incommensurabile, cielo e mare, sono tenute distinte dalle sagome dei manufatti umani età dopo età cresciuti per giustapposizioni e divenuti familiari. La marina è raffigurata al vivo, tale che ne risulta vero il breve respiro ondoso e si succedono su di essa i riflessi generati dalla luce naturale e dai barbagli notturni. L’acqua è blu cobalto e celeste, poi si scurisce per abbondanti emersioni di grigio, ora è interamente screziata al tramonto per cangianti luminescenze dorate, infine recupera venature di zaffiro opaco, accarezzate dovunque dal rosso che l’orizzonte all’occaso dispensa. Barche incedono o sbandano silenziose sulla superficie sommessamente increspata, reiterato corrispettivo della nostra instabile presenza nel flusso delle maree altalenanti nell’infinito.
Gianfranco Scialino

