L’etnocromatismo di Tullio Gombac di Roberto Benedetti
Dopo le tante stagioni trascorse in Nigeria, il ritorno espositivo italiano di Tullio Gombac avviene nel segno del colore e di una realtà partecipata. Fattosi ricercatore e antropologo, l’artista studia e categorizza un habitat, ne esamina i colori secondo una personale sintesi tassonomica, a partire da schizzi registrati in taccuini frutto delle lunghe osservazioni raccolte ’sul campo’, per passare poi in un secondo momento alla libera rielaborazione, grazie a uno sguardo distante. L’impaginazione memoriale mette così in gioco il ricordo delle percezioni visive, le ripete e ricrea nelle tante varianti. Dalla rivisitazione di questi ’luoghi’ del ricordo scaturiscono immagini stratificate, forme peculiari di un mondo altro, un vademecum di riflessioni decodificate e trasmesse per osmosi cromatica e lessicale.
L’Africa di Gombac affiora attraverso tinte ferocemente mobili, tra contatto di natura e astrazione, oltre ogni idillio: una foresta che incanta, una tavolozza complessa esaltata da mille colori e quasi possibile controcanto per La foresta dei Mille Demoni del nobel nigeriano Wole Sovinka. Un’Africa che è insieme cuore di tenebra, pensiero selvaggio, foresta pulsante di luci e di contrasti, sospesa tra armonie e disarmonie, un continuo prorompere della natura saliente in lotta con la materia. Il chiaro e lo scuro, il brillante e l’opaco, il liscio e il ruvido contribuiscono alla fantasmagoria dei colori e ai loro parametri emotivi, a partire da riferimenti concreti a sostanze eterogenee, a tasselli sparsi lungo un orizzonte geografico reso improvvisamente palpabile, marcato da radici, cortecce, foglie di palma, ananas, petali di fiori spontanei, riverberi di cristalli, terre, pigmenti. Nella cava il rosso ruggente della laterite si mescola con il bianco del caolino, nel delta del fiume Niger, a Port Hartout, le mangrovie sfidano la fiammata blu del pozzo petrolifero. Baluginano i tanti verdi della boscaglia, esplodono i bagliori scaturiti dalla terra, le magie infuocate dei tramonti.
L’assenza di forme prestabilite, in quanto le forme sono quelle assunte dalla materia-colore, contribuisce all’idea di precarietà, di una natura inafferrabile, in continuo divenire, fatta solo da istanti effimeri, proiezione anche di conflitti simbolici. Non a caso i bianchi, traduzione neutra degli spazi aperti, in certe opere appaiono dislocati in basso, metafora di una linea d’ombra sempre pronta a comprimere o a porre quantomeno in affanno la propulsione rigogliosa del bene, scaturito dalla terra che è madre.
Contamina spesso l’alfabeto dei colori, li avviluppa o li attraversa veloce, il ’sistema’ rinato dei neri, vera cifra dell’arte di Gombac e della sua ben sperimentata ricerca grafica. Sono striature filamentose, graffi che in questo contesto assumono la forza di architetture magico-sacrali: squarciano silenzi, trascrivono suoni, evocano odori, flussi, venti, rovesci temporaleschi, frantumarsi di sterpi, tracciano voli di uccelli verso un altrove. Insieme concorrono a formare un crogiolo di messaggi intuitivi, raccolti a volte su supporti improvvisati come i cartoni da pizza riciclati, a riprova di una pittura inventiva che tende a coniugare essenzialità e immediatezza.
TULLIO GOMBAC è nato a Trieste dove vive e lavora. Allievo di Carlo Sbisà, è stato curatore del Civico Museo Revoltella e presidente del Sindacato Autonomo Pittori, Scultori ed Incisori di Trieste.
Ha partecipato a numerose mostre nazionali ed internazionali ottenendo numerosi premi, tra cui per due volte consecutive, il primo premio per la grafica alla biennale internazionale di Ibiza (Spagna).
Ha vissuto per molti anni in Africa, in Algeria, ma soprattutto in Nigeria dove ha continuato la sua attività artistica trovando forte ispirazione dal contatto con la foresta tropicale.
Sue opere si trovano in molti musei e collezioni italiane ed estere. La sua ultima personale a Trieste risale al 1971.